La psicoterapia cognitivo comportamentale si sviluppa attorno agli anni ’60, dalle intuizioni di due terapeuti: Aaron Beck e Albert Ellis.
In questa prospettiva terapeutica l’enfasi viene attribuita alla relazione esistente tra pensieri, emozioni e comportamenti.
Questi tre processi si rapportano tra di loro in vari sensi, e non per un’unica via di causa-effetto.
I pensieri possono condizionare il comportamento e la valutazione affettiva (penso di non piacere alle persone, evito di frequentare gente, mi deprimo della mia solitudine); tuttavia le emozioni stesse possono attivare degli scopi (o pensieri) e quindi agire da motivatori di un’azione (vedi il caso in cui la paura attiva la percezione di minaccia e quindi la fuga); inoltre le emozioni influenzano i processi di ragionamento quali attenzione, memoria e recupero di informazioni (il cosiddetto Mood Congruity Effect, per cui se sto sperimentando ansia sarò maggiormente attento agli stimoli minacciosi e ciò mi porterà ad interpretare la situazione in maniera ancora più pericolosa).
In particolar modo, secondo l’approccio cognitivo comportamentale le rappresentazioni mentali dei soggetti (credenze, pensieri) permettono di spiegare il disagio psicologico e il suo mantenersi.
- Quand’è che si viene a creare sofferenza psicologica?
Quando il soggetto interpreta le situazioni attraverso valutazioni “negative” o per meglio dire “disfunzionali”. Con questo termine specifico intendiamo convinzioni che allontanano dai propri obiettivi, dai propri scopi, e che tendono a riproporsi costantemente nonostante la loro inefficacia.
Con l’aggettivo “negativo” si potrebbe intendere una visione non reale o pessimistica della realtà. Questo fattore invece non è essenziale per sviluppare il disagio. Una credenza può essere “vera” ma comunque disfunzionale (pensiamo ad un giovane frustrato perché convinto che non ci sia lavoro. In questo periodo potrebbe essere piuttosto veritiera come convinzione, tuttavia è un pensiero disfunzionale se lo porta ad abbandonare la ricerca di un’occupazione ancora prima di verificarla). Al contrario una credenza può essere “falsa” ma funzionale agli scopi (per esempio un altro giovane può esser convinto di essere bellissimo e che tutte le donne cadano ai suoi piedi. Noi potremo scoprire che ciò avviene per via della sua ricchezza e non per l’aspetto estetico, tuttavia il ragazzo avendo tale convinzione mantiene alta la sua autostima e probabilmente riesce bene nelle relazioni sociali perché sicuro di sé).
- Come mai le credenze “disfunzionali” non scompaiono dopo la loro comprovata inefficacia?
Ciò si verifica per l’entrata in gioco di distorsioni cognitive e meccanismi di mantenimento.
Con distorsioni cognitive si intendono degli errori di inferenza, di giudizio, legati a diversi fenomeni tra cui il pensiero assolutistico o dicotomico (è tutto nero o bianco), effetti di minimizzazione (negare l’importanza dell’evento) o ingigantimento (considerare fondamentale l’evento), astrazione selettiva (concentrarsi solo su un particolare dell’evento). Prendiamo il caso di un soggetto che ritiene di essere un’incapace. Nel caso riuscisse a portare a termine con successo un’attività, egli potrebbe “svalutare” la cosa dicendosi che è stata soltanto fortuna, o che il compito era molto semplice e l’avrebbe potuto completare chiunque, mantenendo inalterata la sua credenza di “incapacità” nonostante le evidenze contrarie.
Ci sono poi meccanismi di mantenimento legati alle reazioni dell’ambiente esterno. Un soggetto che pensa di non piacere alla gente, tenderà ad allontanarsi dal gruppo, a rimanere isolato, a non intervenire nelle conversazioni. Ciò potrebbe provocare negli altri la sensazione che egli sia altezzoso, strano o indifferente. Il gruppo tenderà a non coinvolgerlo, confermando e alimentando nel soggetto la sensazione di essere rifiutato.
- Come interviene quindi la terapia cognitiva?
In primo luogo si può comprendere che il ruolo giocato dagli eventi esterni sia considerato di tipo personale, ossia basato sul sistema di convinzioni ed esperienze del singolo soggetto. A parità di situazione, soggetti diversi daranno interpretazioni differenti (ad esempio un rimprovero da parte del capo può produrre in alcuni un senso di ansia, di vergogna e in altri rabbia ed ostilità) proprio sulla base di diverse convinzioni personali (i primi potrebbero vedere il rimprovero come possibile perdita del posto di lavoro, i secondi potrebbero giudicarlo come qualcosa che non si meritano e quindi sentono solo di subire un torto).
L’obiettivo della terapia è quello di cogliere i significati individuali, per comprendere il modo di reagire e funzionare dei singoli pazienti. Una volta esplicitate le convinzioni disfunzionali, il lavoro si concentra sulla modifica e messa in discussione di tali pensieri, al fine di renderli più funzionali e utili al paziente per migliorare la sua condizione di disagio. Questo avviene attraverso il dialogo con il terapeuta, che cercherà di far emergere i temi o pensieri centrali che guidano la vita e il comportamento del paziente.
Spesso la terapia cognitiva si avvale anche di tecniche comportamentali, per cui il soggetto viene incoraggiato ad esporsi gradualmente alle condizioni in cui sperimenta disagio, e che spesso tende ad evitare. Questo modo può essere un mezzo per disconfermare le credenze del paziente, e allo stesso tempo gli permette di sperimentare nuovi modi di affrontare e reagire all’evento.
Infine all’interno di questo approccio si trovano anche tecniche mirate all’acquisizione di nuove capacità o abilità sociali che consentiranno un miglior approccio all’ambiente esterno. In questo campo rientrano gli addestramenti all’assertività (ossia la capacità di esprimere le proprie opinioni in modo chiaro ed efficace) e i social skill training (come l’ascolto attivo, la persuasione o la leadership, che aiutano nei processi di socializzazione e interazione).
Per saperne di più: I cento punti chiave della psicoterapia cognitiva. Teoria e pratica
Self-help: Cambia la tua vita con la TCC. Tecnica e pratica della terapia cognitivo-comportamentale