Sentirsi soli: cause e possibili rimedi per gestire la sensazione di isolamento

Secondo lo psichiatra e sociologo Robert Weiss, il senso di solitudine non è che “un importante (e doloroso) segnale d’allarme sulle nostre relazioni: ci avverte che qualcosa non va, che dai nostri rapporti non riceviamo le risorse di cui abbiamo bisogno per il nostro benessere generale e per il nostro buon adattamento”.

In effetti sembra che la solitudine possa derivare dalla frustrazione di alcuni bisogni relazionali, che ricadono nelle categorie di bisogni di accudimento e bisogni di appartenenza.

I primi si riferiscono al bisogno di condividere la propria vita emotiva con altre persone, attraverso relazioni intime, stabili e profonde che assicurino disponibilità, affidabilità, protezione, rassicurazione, vicinanza fisica e psicologica. Dei secondi fanno parte il bisogno di sentirsi parte di una comunità, di condividere interessi, norme, valori di un gruppo, di sentirsi utili ed essere stimati.

Sebbene non totalmente distinti, la frustrazione di uno o dell’altro bisogno sembrano far insorgere diverse tipologie di solitudine: nel primo caso si tratta di solitudine affettiva, che si manifesta essenzialmente con ansia, paura, senso di abbandono, vulnerabilità. Nel secondo ci si troverà di fronte ad una solitudine sociale, che comporta un senso di estraneità, noia, irritazione, rifiuto ed esclusione.

Ciò che è importante notare è la difficoltà di compensare l’insoddisfazione di un tipo di bisogno con la soddisfazione dell’altro. Le ricerche hanno infatti dimostrato che l’accettazione sociale e la stima della comunità, pur restando gradite all’individuo, lasciano inalterata la sua solitudine causata dal non avere una persona cara accanto a sé, e viceversa.

La solitudine (o ancor più in generale, la sofferenza) sembra però essere legata anche ad un aspetto più cognitivo ed interiore. Come mai, a parità di amici o di status lavorativo, alcune persone si sentono più sole di altre? Come mai ad alcuni basta lo sguardo del partner per sentirsi amati mentre altri sembrano necessitare di continue attenzioni? Tutto ciò dipende dalle aspettative (in questo caso aspettative relazionali), cioè da come immaginiamo che l’altro debba comportarsi, da quanti amici si dovrebbero avere per essere ritenuti simpatici, da cosa dovremmo dire in pubblico per essere apprezzati e così via. Ognuno di noi costruisce nel suo immaginario “come dovrebbe essere il mondo” per poter andar bene.

Queste aspettative in parte derivano dalle esperienze passate, in parte si “ereditano” dai familiari, dalla cultura, dalle norme della comunità di riferimento. Può quindi succedere che si formino aspettative “irrealistiche”, che non corrispondono alla condizione e alle capacità del soggetto, e spesso nemmeno alle autentiche esigenze della persona.

Ecco allora che la sofferenza si fa sempre più probabile.

E basta accorgersi di avere delle pretese irrealistiche per eliminare la sofferenza? Si... e no.

E’ necessario ridimensionare le aspettative, ma ancora più fondamentale è non prendere questa riduzione come un semplice accontentarsi, e soprattutto un accontentarsi di non raggiungere ciò che altri invece hanno.

Un meccanismo che entra spesso in azione in questi casi, oltre a quello che va dalle aspettative alla sofferenza, agisce anche in senso inverso: la sofferenza e la solitudine alimentano le aspettative irrealistiche. In che modo avviene ciò? Quando si soffre spesso si tende a sentire la solitudine anche in questo, cioè “sono l’unico che sta male, mentre il mondo è felice”, e ciò non consente di vedere le vite altrui, di fare effettivi confronti e di condividere problemi e timori.

Proprio perché tutto dipende dal mondo interiore degli individui, vedere una coppia che per noi rispecchia i canoni della felicità, non significa che essi vivano effettivamente bene la loro condizione, se avevano un’aspettativa diversa di come doveva essere la loro relazione!

Oltre alle aspettative, anche le attribuzioni giocano un ruolo importante nella sofferenza emotiva e nella solitudine. A quale causa attribuiamo il fatto che siamo soli, che non abbiamo amici o che non stiamo assieme ad un partner? Sono elementi interni o esterni alla persona? Sono circostanziali o permanenti? In altre parole, "diamo la colpa" alla nostra incapacità, alla sfortuna, all'ambiente non favorevole, alla poca disponibilità altrui, al nostro poco impegno? A seconda di ciò varierà notevolmente la reazione emotiva (e anche quella comportamentale) alla solitudine.

Come si può "rimediare" in questo caso? Cercando di vedere quante più alternative possibili al perchè della solitudine. Evitando di fossilizzarsi su quelle che rischiano di trascinare ancora più a fondo (del tipo "andrà sempre così, non cambierà niente"), e scegliendo quelle che danno maggiori speranze di futuro successo. 

Qualora la persona senta di possedere effettivamente scarse capacità relazionali o soffra di scarsa autostima è possibile intraprendere appositi percorsi affiancati da psicologi esperti. 

Inoltre, a causa della profonda connessione tra senso di solitudine, bisogni emotivi e relazioni affettive e sociali è possibile che questa sofferenza sia in qualche modo collegata alla presenza di qualche trappola emotiva (in particolar modo su episodi di Deprivazione Emotiva vissuti nell'infanzia che possono aver esacerbato la sensazione di distacco e isolamento dagli altri) per cui potrebbe essere utile un percorso psicologico basato sulla Schema Therapy (per informazioni a riguardo leggere qui:Uscire dagli "schemi": la Schema Therapy.). 

 

Leggi un altro articolo sulla solitudine e il sentirsi soli: Sentirsi soli: il senso di solitudine che affligge la società moderna.

E' disponibile online il questionario gratuito che rileva gli Schemi e i bisogni emotivi: per compilarlo clicca qui: "Quali sono le tue trappole?"

 

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Lettura consigliata: Sentirsi soli

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Dott.ssa Chiara Francesconi

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Autori: J.Young, J.Bowlby, Jon Kabat Zinn, G. Liotti, Aaron Beck & Albert Ellis

Dott.ssa Chiara Francesconi - Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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